(02/02/2021)
“LI CUNDE” DELLA VECCHIA SOCIETA’ CONTADINA SANTAGATESE
Stéva na vecchia sopa a lu monde, aspetta aspetta ca mo te lu conde

di Mario De Capraris

“SALINTAVOLA”

 Due anziani contadini, che avevano il figlio a studiare in città, un giorno ricevettero la sua visita in paese, dove era tornato per le feste. Inutile dire che per loro ogni desiderio del figlio era un ordine. Né lo stesso usava tante delicatezze nell’esprimere ciò che desiderava, visto che i due non aspettavano nemmeno che parlasse che si facevano in quattro. Il giovane non si perdeva in chiacchiere. Quando trovava qualcosa che non andava, si limitava a dire lo stretto necessario. Se a tavola mancava, per esempio, il pane, diceva soltanto “pane” e quelli si precipitavano subito a servirlo. Analfabeti come erano, spesso, quando il figlio parlava, facevano finta di aver capito anche quando non avevano capito. Figuriamoci se si trattava di contraddirlo o di chiedere spiegazioni. Potevano mai capire loro che erano ignoranti e vecchi?

Così un giorno che si sedettero a tavola per pranzare, il figlio, ingoiata la prima cucchiaiata di brodo, stranamente si bloccò e, rivolto al padre, ordinò:

“Salintàvola.”

I due genitori si guardarono perplessi non sapendo che fare.

“Salintàvola” ripeté il figlio.

I due pensarono:

“Veramente?” ma non aprirono bocca.

Di nuovo il figlio, un po’ spazientito:
“Ho detto salintàvola!”

Allora i due genitori si guardarono rassegnati, si strinsero nelle spalle e l’anziano padre salì sulla tavola.

 

“CUME RIRE LU CIUCCE MIJE”

Un pover’uomo aveva notato che sul tetto della chiesa era cresciuta un’erba verde talmente invitante che gli sembrava un peccato farla andare sprecata. Così decise di farla mangiare al suo asino, anche se farlo salire sul tetto era piuttosto complicato. Ma la cosa non rappresentò un problema perché, detto fatto, con una corda e una carrucola si dispose per l’operazione. Passò la corda al collo dell’animale e lo tirò su fino al livello del tetto. Intanto però a quell’altezza l’asino vi era giunto impiccato mostrando i denti, il che fece esclamare all’uomo:

“Luì cume rire lu ciucce mije che ha viste l’erva fresca.”

 

“AMMOLE TANDE”

(“Ammulè”, come si sa, significa molare, cioè affilare per esempio un coltello con la pietra molare, e in dialetto significa anche, sebbene non rende proprio l’idea, covare rabbia.)

Il proprietario di un campo, quando il grano fu pronto per essere mietuto, si portò in campagna i mietitori che subito si misero all’opera. Ma ben presto l’uomo si accorse che con la manodopera non ci aveva azzeccato, perché i mietitori, ora l’uno ora l’altro, sembrava che avessero mille necessità; una volta dovevano andare dietro il cespuglio, un’altra volta avevano bisogno di un sorso di vino dalla fiaschetta che tenevano calata nel pozzo, un’altra ancora di un pezzo di pane dalla bisaccia nella masseria. Né il proprietario poteva permettersi il lusso di cambiare mietitori, perché si sarebbe perso troppo tempo e il grano non poteva aspettare oltre. Perciò, al culmine della rabbia, si sedette al muretto del pozzo e prese a molare il coltello con la pietra molare.  Così, quando quelli venivano a bere il vino al pozzo, ognuno gli si rivolgeva dicendo:

“Che, ammuole?”

“Ammole tande” rispondeva il proprietario.