(15/04/2020)
DON BOEZIO


di Mario De Capraris

Quando ancora non c’era la televisione, nelle lunghe sere d’inverno, da ragazzi si ascoltavano i racconti che gli anziani facevano attingendo al bagaglio della centenaria cultura contadina. Erano storie inventate di sana pianta, alcune con una loro morale, altre che non avevano né capo né coda, ma spesso si trattava di fatti realmente accaduti cui la fantasia popolare ci aveva ricamato sopra, aggiungendoci l’ironia persino su avvenimenti delicati. Riflettevano l’ambiente contadino in cui viveva la gente di allora, con riferimento anche a quello che si sentiva più vicino, l’ambiente clericale, però fermandosi a chi occupava il gradino più basso: il sacrestano. Tuttavia non è raro imbattersi in qualche storia in cui si ravvisa l’antico campanilismo con il vicino paese di Accadia. Poi di punto in bianco è accaduto l’inevitabile: con l’urbanizzazione di massa e il passaggio epocale dei contadini dalle campagne all’industria e ai servizi, gli stessi racconti non sono stati più tramandati perché nel frattempo sono sopravvenuti i nuovi strumenti mediatici. Rispetto all’odierna narrazione televisiva o in streaming, i racconti fatti dai vecchi vicino al camino sembrano roba da preistoria. Così riscoprirne qualcuno, per quel che la memoria lo consente, sembra di rinvenire dei reperti archeologici. Vecchie storie di quando le campagne erano piene di gente, gli asini e i muli usati come mezzi di trazione, si celebravano ancora i grandi riti collettivi dalla mietitura alla trebbiatura, e la città era un’entità lontana. 

                                                                               DON BOEZIO

                                                                              di Mario De Capraris

Boezio, che chissà perché chiamavano don Boezio, aveva un figlio monaco. Un giorno, per tenere contento il figlio che insisteva perché andasse a trovarlo, si decise infine a partire. Lasciata l’asina al compare vicino di terreno, al quale raccomandò anche di badare ogni tanto alle galline visto che sarebbe stato via qualche giorno, una mattina prese la corriera e partì. Non essendo abituato a viaggiare, arrivato a destino, sceso dalla postala, disse:

“Me sènde cu la chèpa ndufèta.”

Il figlio, nel vedere l’anziano padre, si commosse. Altrettanto si commosse Boezio che si dispiaceva che il figlio fosse lontano. Per la sua temporanea residenza gli venne assegnata una stanza con lenzuola profumate e un morbido materasso che Boezio, provandolo, ebbe ad esclamare:

“Ate che li fuòrrele re lu matarazze re la massarija.”

La sera insieme agli altri cenò nel refettorio e, sarà stato per il viaggio o per la fame, fatto sta che il piatto ebbe un sapore particolare, qualcosa che non aveva mai mangiato. La mattina dopo passò a fare colazione, e anche la colazione, in campagna se la poteva solo sognare. A mezzogiorno in punto gli diedero il pranzo, che anche questo era così squisito che non vedeva l’ora di raccontarlo al compare. La sera la cena. La mattina nuovamente la colazione. A mezzogiorno il pranzo e così via dicendo, e tutto puntuale, tutto senza che si saltasse mai un pasto, senza che mancasse mai qualcosa, tanto che a un certo punto don Boezio, che nel frattempo aveva sempre fatto il confronto con la sua dieta di contadino, alla mancanza di puntualità dei suoi poveri pasti che certe volte gli succedeva proprio di saltarli, pensa che ti ripensa, alla fine si decise e disse al figlio:

“Me voglie fè mòneche pure ije.”

Da allora è rimasto il detto: “Se vulèva fè mòneche cume a don Buezje” per dire che spesso ci si lascia ingannare dalle apparenze, senza sapere le difficoltà che ci sono dietro.