Nel settembre 1963 io, mio padre e un amico andammo a Foggia a cercare una pensione per studiare in città. L’amico, che era più pratico, ci portò a vederne un paio, che però non trovammo soddisfacenti per vari motivi. E nel mentre che giravamo per trovare questa benedetta pensione, facemmo una capatina alla Standa. Si era in pieno boom del consumismo, e la musica che si ascoltava nei grandi magazzini era qualcosa di fantastico, infatti “Abbronzatissima” e “Sapore di sale” rappresentano tutt’oggi dei bellissimi ricordi. Dopo di che andammo a vedere un’altra pensione che si trovava in via Mazzini, vicino lo stadio. La signora pensionante e il marito ci accolsero in cucina e ci offrirono il caffè. Vuoi che eravamo stanchi per aver girato in lungo e largo, vuoi perché la casa ci pareva la più confortevole, fatto sta che già appena entrati eravamo convinti di prendere questa pensione, sebbene il prezzo, come scoprimmo, era più alto delle altre, 23.000 lire al mese. E tutte le rassicurazioni della signora, che avevamo fatto una buona scelta e che saremmo stati trattati da signori, non servirono a rasserenarci sull’importo che per noi era eccessivo. E gli animi divennero ancor meno sereni quando tornammo a casa perché, come c’era giustamente da aspettarsi, mia madre fece più che mai aumentare i nostri sensi di colpa, infatti bastò che dicesse: “E dove andremo a prendere tutti ‘sti soldi, se non abbiamo una lira?” per mettere sottosopra un’intera famiglia. Allora, per compensare i raccolti che venivano scarsi, per i contadini non c’era nessun aiuto. Pertanto il mio trasferimento in città fu in forse fino all’ultimo momento, ma il primo ottobre, di buon’ora, presa la valigia, andai al garage di don Ascanio Barbato dove la corriera era già pronta con il motore acceso. E così, senza tante smancerie senza abbracci e effusioni inutili come era nel costume di noi contadini, partii per la città lasciando tutti i miei affetti al paese. Mi consolava il fatto che nella pensione, tranne uno, eravamo tutti compaesani. Per quanto riguarda il denaro non ebbi a sentire più nessun discorso, più nessuna lamentela, basta, era acqua passata, e c’era un motivo ben preciso come poi ebbi modo di scoprire. E qui è necessario che faccio un passo indietro.
Dunque, nell’estate dell’anno precedente, il 1962, avevo fatto un concorso a Foggia per ottenere una borsa di studio biennale che consisteva nella somma di 110.000 lire il primo anno e altrettanto il secondo anno. Avevo preso il pulman e avevo fatto l’esame - che consisteva in una sola prova scritta, un tema - in una scuola che si trovava di fronte all’ex tribunale, accanto alla villa comunale. E praticamente ci passai buona parte della giornata, perché, mentre aspettavo l’orario di ritorno al paese del pulman, ricordo che stetti per strada e quando venne a fare un forte acquazzone mi riparai dentro il portone di un palazzo vicino alla stazione. Preso il pulman, poi per tornare in campagna da dove ero partito, scesi alle “Tre curve”, attraversai le campagne passando per “Le fosse” e il torrente “Re jummarerre” per arrivare alla nostra contrada di San Pietro, dove trovai la famiglia impegnata a mietere il grano. Mio padre, la falce in mano, raddrizzandosi dolorante sulla schiena mi domandò: “Hai fatto il tema?” “Sì” risposi io. “Beh adesso non c’è più bisogno che leggi il Temerario” disse lui, che il Temario, il libro su cui mi esercitavo con i temi, lui lo chiamava il Temerario. Infatti, nel periodo precedente l’esame, diverse volte, mentre mieteva, per sollecitarmi a studiare quel libro, ogni tanto mi chiamava: “Mario, lu Temerarje”. Insomma, fatto il tema, nessuno ci pensò più, la cosa divenne lettera morta. Intanto passò del tempo e nessuno se ne sarebbe più ricordato se non fosse che arrivò qualcosa a segnalarcelo. Successe che mamma, venendo dalla campagna per fare il pane e aprendo la porta di casa disabitata, con la coda dell’occhio vide un foglietto che, dal legno dell’uscio dove era trattenuto, era scivolato a terra; allora mamma, infastidita, disse: “Beh, chi è che si diverte a mettere sti foglietti?” e con il piede spinse il pezzo di carta sulla strada per liberare l’uscio dalle cartacce. Ma subito dopo ebbe come un presentimento e disse: “E se è qualcosa di importate?” così prese a terra il foglietto. Era l’avviso con cui comunicavano di andare a ritirare la prima rata di 55.000 lire della borsa di studio.
(continua)