Un pover’uomo, che aveva diversi problemi primo fra tutti quello di non riuscire a combinare il pranzo con la cena per sé e la sua famiglia, dopo il lavoro estivo nelle campagne, all’arrivo della cattiva stagione e l’impossibilità di lavorare in condizioni difficili, passava le sue giornate al circolo a giocare a carte dove perdeva anche i pochi soldi che aveva a disposizione, e spesso, tornando a casa, non riusciva a fare a meno di fermarsi alla “candina” a bere qualche bicchiere. Non sapendo come presentarsi a casa dove avrebbe trovato le bocche da sfamare, entrava in chiesa e chiedeva aiuto a chi aiuto glielo poteva dare, cioè i santi. E così, nella solitudine della chiesa illuminata dall’unico debole lumicino posto dietro l’altare, sebbene incespicando nelle parole per i fumi dell’alcool, rivolgeva a voce alta e ripetutamente la sua preghiera:
“Sande re lu Paravise, facìteme addevendè ricche.”
Il problema di come i Santi avrebbero fatto a farlo diventare ricco, così di punto in bianco, non se lo poneva nemmeno, perché giustamente, essendo santi, avrebbero saputo loro come fare il miracolo.
E così ogni sera, per tante sere. Il caso volle però che una sera il sacrestano sentì il parlottìo che veniva dal fondo della chiesa e, avvicinatosi senza farsi vedere, scoprì il poveraccio che ripeteva imperterrito la solita filastrocca. Visto che la scena si ripeteva all’infinito, una sera decise di porre fine alla cosa, perciò si nascose dietro una statua e aspettò che arrivasse quello. Il pover’uomo, puntuale, infatti arrivò, alquanto malfermo sulle sue gambe per via della puntata alla candina, si sedette e come sempre si apprestò a ripetere più volte la sua supplica:
“Sande re lu Paravise, facìteme addevendè ricche.”
“Va fatiha” gridò allora il sacrestano da dietro la statua.
Al che l’uomo, sorpreso, si bloccò e, inviperito, squadrando da capo a piedi le statue, disse:
“Vuje nunn’avìveva esse tanda belle suggette ra vive.”
E non si fece più vedere.