E’ una esperienza che ti forma…, che ti fa capire che la storia serve, che serve ricordare, che non è vero che ciò che è accaduto non può riaccadere, perché l’essere umano sa essere così feroce, ma anche così fragile e ingenuo
Ogni anno, da ormai 15 anni, un bel numero di ragazzi pugliesi partecipa al “treno della memoria”: un’esperienza che aiuta a comprendere il vero significato della Shoah.
Eravamo in 500 il 18 gennaio 2019, con destinazione Cracovia, divisi in gruppi e indirizzati verso tre diverse tappe intermedie. La mia era Berlino.
Il viaggio è progettato per far vivere a noi giovani a 360 gradi, quell’esperienza orribile della storia, per aiutarci a riflettere. E’ già motivo di riflessione quell’itinerario in pullman e l’affrontare un viaggio così lungo. Non si alloggia in hotel, ma in ostelli. Si vive tutti insieme come in una grande comunità. Il significato di un simile viaggio lo capisci dopo averlo vissuto, lo capisci solo alla fine, che poi fine non è.
Mi è parso più un nuovo inizio, un inizio utile per raccontare la mia esperienza e riviverla.
I luoghi che abbiamo visitato a Berlino sono stati la Topografia del terrore, il Campo di Sachsenhausen, il Parlamento, le Porte di Brandeburgo, il Memoriale costruito per gli ebrei e il Muro di Berlino. A Cracovia abbiamo visitato la città, la Fabbrica di Schindler, il Quartiere ebraico e il Ghetto, il Campo Auschwitz I e Auschwitz- Birkenau.
Forse la cosa che mi ha colpita maggiormente è lo studio minuzioso elaborato dai Nazisti per
quella costruzione, ma soprattutto la vastità del campo di concentramento Auschwitz-Birkenau.
E’ la cosa che ha impressionato la maggior parte del mio gruppo. Il pensiero di aver
camminato sulla stessa terra dei deportati, percorrendo quella medesima strada che li conduceva allamorte, mi ha messo i brividi! Il freddo che ci congelava le mani, la stanchezza del viaggio in sé e l’atto faticoso di tanta strada percorsa erano passati in secondo piano mentre ci dirigevamo verso i forni crematori.
In questo itinerario mi hanno segnata ancora di più gli abbracci: quegli abbracci sinceri e immediati, scambiati senza parola con i miei compagni di viaggio.
Un nome mi è rimasto fisso: Simon Jachcel. Non tanto il nome, quanto il volto. Non è stata la sua biografia ad impressionarmi, non la conosco nemmeno. Probabilmente era un uomo come un altro, magari aveva dei bambini, una moglie o forse no.
Non è stata la sua biografia a colpirmi, ma i suoi occhi su quella foto scattatagli come documento di identificazione. Tra un’infinità di volti io ho scelto il suo volto, ho scelto il suo nome e per lui ho acceso una candela.
Ognuno di noi ha acceso una candela per un deportato: uno per ricordare tutti, per ricordare che erano persone come noi, che non erano soltanto un numero.
Ritornarvi ancora? In realtà non so come potrei reagire ritornando lì. Ho viaggiato con persone che hanno visitato più volte quei luoghi e ogni anno per loro è come se fosse il primo. Penso non ci si possa abituare mai a certi luoghi.
Non potranno mai smettere di farti provare nell’animo le stesse cose della prima volta. E’ una esperienza che ti forma in qualche modo, che ti fa capire che la storia serve, che
serve ricordare, che non è vero che ciò che è accaduto non può riaccadere, perché l’essere umano sa essere così feroce, ma anche così fragile e ingenuo.
Rossella Locurcio