Negli anni Cinquanta uno tra gli altri grandi avvenimenti della società agricola di allora era costituito dalla vendemmia. Il segnale che si stava avvicinando il momento si aveva dall'improvviso interesse per le botti, che stavano giù in cantina. Il compito di pulirle spettava ai bambini, che si infilavano attraverso la stretta apertura anteriore e raschiavano all'interno la crosta secca dell'anno precedente. Finché un mattino di ottobre, che era ancora buio, si veniva svegliati e si andava quasi dormendo sulla strada del mulino fuori paese, dove stava aspettando il camion. Questo si avviava pieno di barili vuoti per scaricarli oltre il bosco delle Cesine, nella radura, perchè non poteva andare oltre, a causa dell'asperità del terreno, e andavia via per tornare la sera a riprendere i barili pieni di mosto. La vigna estiva, quella assolata di quando si era irrorato il verderame, era ormai un lontano ricordo. L'aspetto era completamente cambiato. Adesso era piena di gente che si affannava a tagliare grappoli dalle viti. E intanto che quelli tagliavano, altri trasportavano i cesti d'uva e li scaricavano nel tino, dove una donna, la veste alzata, pigiava a gambe scoperte sull'uva, mentre il mosto colava. E dopo che il mosto colato aveva riempito il secchio, questo lo si svuotava nei barili. Ma si vedeva che sul paesaggio mancava lo splendore dell'estate. Mancavano i toni accesi. C'era un inspiegabile silenzio. Tutte le cicale, tutti gli uccelli erano andati via. La natura era un teatro in cui avevano smontato le scene e spento le luci. Quelli che si aggiravano tra le viti erano delle comparse che recitavano un copione sperando di ripetere i fasti di una commedia irripetibile. Si sapeva che, finita la vendemmia, ci sarebbe stato solo lo squallore. Ebbene, perché allora, tra tutte le difficoltà derivanti dalla mancanza di beni essenziali, di denaro, di mezzi e anche di forza fisica, si fosse così ossessionati a fare il vino, è qualcosa di inspiegabile. Venderlo non si vendeva. Raramente veniva lo sparuto cliente. Gli si riempiva la bottiglia, quello assaggiava il vino e subito si affrettava a disprezzarlo: “E' nu gnostre” (é un inchiostro). Evidentemente si coltivava la vigna perchè un campagnolo senza vigna non poteva ritenersi tale. Anzi tra parenti ci si giudicava tramite il vino. La considerazione dell'altro era fatta in virtù del vino che ognuno era capace di produrre. Il vino era il loro metro di giudizio, anche se tutti lo facevano scadente. È sorprendente come questa bevanda fosse la componente di base nella dieta di ognuno.. Più che il cibo, era importante che a tavola ci fosse il vino. Su quest'ultimo circolavano storielle come sulla chiesa. Famosa la storiella del monaco dalla rinomata arte oratoria. Costui fu chiamato a fare la predica nella messa della festa annuale. Quando a fine cerimonia gli fu chiesto perché avesse parlato solo del Padre e del Figlio, rispose che due erano stati i fiaschi che gli erano stati regalati - e che aveva bevuto - e due erano stati gli argomenti di cui aveva parlato. Se gli avessero offerto un terzo fiasco, avrebbe parlato anche dello Spirito Santo. E tutti erano concordi con lui perché non poteva essere diversamente. In fondo il vino era il motore di tutto, al punto che poteva anche determinare se trattare o meno un argomento. Ma quello che veniva prodotto era un vino che andava subito a male, visto che ancora non era in uso l'anidride solforosa. E che fosse un vino terribile lo confermava il fatto che, dopo averlo bevuto, ci si consolava dicendo che bastava farci l'abitudine. Era incredibile come ci si attaccava al fiasco e si tracannasse tutto d'un fiato in una sola volta anche un litro di vino. E con che disinvoltura si passava il fiasco al bevitore successivo con tutta la bava la saliva e i germi inclusi. Certi si attaccavano alla bottiglia di primo mattino, a colazione. Un po' come prendere il caffè. Che io ricordi, ogni cosa era imbevuta di vino. Il pane? Bagnato nel vino. I taralli? Al vino. Il coniglio? Al vino. Forse ai poppanti il biberon si riempiva metà latte e metà vino. Quando si offriva da bere all'ospite, ovviamente il drink era il vino. Presentargli l'acqua sarebbe stata cattiva educazione. L'acqua da bere si dava agli animali. E a proposito di animali, è il caso di ricordare un'altra operazione che fa parte della storia contadina di alcuni decenni fa, un rito alquanto cruento cui si assisteva con gli occhi disincantati di ragazzi. Nella grotta, oltre che l'asina, verso novembre si teneva anche il maiale, che si era portato dalla campagna perchè si avvicinava il giorno che gli si sarebbe fatto la festa. Nel frattempo la famiglia poteva avere problemi di cosa mettere a tavola, poteva andare incontro alla difficoltà di trovare qualcosa da mangiare la sera, ma che il maiale saltasse il pranzo, o che il cibo per esso fosse al risparmio, questo non doveva assolutamente accadere. Il pastone per il maiale, fosse cascato il mondo, era necessario prepararlo e in quantità abbondante. E la bestia a volte giustamente mostrava di non gradire, sia per il solito menu e sia per i pasti troppo ravvicinati. Finché la festa gliela facevano in tutta segretezza una notte (avveniva di notte per non pagare il dazio) quando le condizioni del tempo erano le più cupe e più fredde. Entravano in casa diversi uomini, in fila indiana, intabarrati di nero, con certi cappellacci neri calati sul volto come tanti cospiratori che non volevano essere riconosciuti, e, senza perdersi in cerimoniali, si dirigevano spediti all'interno della grotta. Tornavano nello stanzone tirando il maiale con la corda, e quello, svegliato che dormiva beatamente, come se avesse capito tutto, facendo resistenza lanciava certi strilli che, alla faccia della segretezza, sicuro lo sentiva anche l'addetto del dazio. Lo facevano accomodare su un tavolaccio e ognuno procedeva a mantenerlo per una estremità, chi teneva una zampa, chi la coda, chi l'orecchio, e apettavano che la bestia si calmasse. Il maiale un po' si calmava, forse perchè si ricredeva dalla convinzione che lo volevano fare a salsicce, ma non era tanto sicuro, infatti ogni tanto lanciava qualche strillo incerto. Non sapeva come interpretare il fatto che lo avessero steso lì pancia all'aria. Era stato sempre trattato bene, tanto che l'avevano fatto diventare obeso a forza delle pietanze esagerate, e adesso... possibile che avessero intenzione di ammazzarlo? Ma non gli davano modo di stare tanto a interpretare la cosa, perchè tutt'assieme, così, a tradimento, con il gesto più naturale del mondo, zac, il coltellaccio affondato nella gola come nel burro a recidere la giugulare, il fiotto di sangue giù nel secchio, mentre i timpani reggevano a stento i decibel delle urla dell'animale. La povera bestia mano mano perdeva le forze e l'operazione era finita. I cospiratori, affidata la carcassa nelle mani sicure del macellaio, con l'aria indifferente di chi non ha fatto altro nella vita che uccidere maiali, lasciavano seduta stante il luogo del misfatto. Qualcuno, data l'ora notturna, se ne usciva anche sbadigliando, come se l'operazione gli avesse conciliato il sonno. Qualcun altro, annusando l'aria, affermava che nella notte avrebbe nevicato.
Mario De Capraris