Quando lo raggiunsi, Sebastiano, che ormai era pratico del posto, mi diceva quello che aveva imparato:
“Noi meridionali siamo fatti che appena ‘azzoppiamo’ nella città settentrionale ci mettiamo a fare i test. Cacciamo il fazzoletto e ci soffiamo dentro per fare il test dell’aria. Facciamo il test del sole quando ci mettiamo a guardare in su e diciamo: - Sembra un sole malato. - Stiamo sempre a fare i paragoni con quello che abbiamo lasciato al Sud. Ma questa è una zona industriale. È logico che non potrà mai competere con i nostri posti meridionali.”
Le prime volte, che era estate, tentando di sfuggire alla calura mi portava lungo il fiume a cercare i rospi. Li cercava perché diceva che dove c’erano i rospi l’acqua era pulita e poteva fare il bagno. Alla fine ne trovammo uno, però Sebastiano disse che chissà come ce l’aveva fatta a non morire e così comunque non fece il bagno. Poi un giorno disse che il prossimo treno per il Sud l’avrebbe preso per andare a sposarsi. La ragazza da sposare non la conosceva ancora, ma l’avrebbe trovata al momento. E siccome mi vedeva perplesso poiché pensavo che per sposarsi bisogna almeno essere innamorati, disse:
“Io sono uno che ha bisogno di parlare in dialetto. Una di qui non mi capirebbe.”
Per lui il matrimonio era tutto lì: una questione di dialetto.
Così un sabato sera prese il treno e la mattina dopo mi fece chiamare al telefono del bar sotto casa. Prendo la cornetta:
“Pronto?”
“Senti, sono ad Accadia” disse con voce emozionata “devi venire subito. Mi sposo.”
Non era manco arrivato che già si sposava. Così partii la sera con la nebbia che si poteva tagliare col coltello e arrivai ad Accadia con un sole che spaccava le pietre. Mi fecero conoscere i nonni, gli zii, le sorelle, i cugini. Io li guardavo, i parenti, e, che strano, assomigliavano tutti ai miei parenti, uguali ai miei nonni, ai miei zii, ai miei cugini. Si puo’ dire che erano i miei parenti. Era gente che lavorava in campagna. Per lo sposalizio fecero una tavolata all’aperto tra il gruppo di masserie e mentre aspettavamo gli sposi osservavo i miei “parenti”, abbronzati da lavoratori all’aperto, i vecchi col vestito nero e la camicia bianca per la cerimonia e, essendo magri, ci andavano larghi tanto che il vestito sembrava di un altro. Poi col fare flemmatico paesano che ben conoscevo, uno di loro mi disse:
“Di dove sei?”
“Di Sant’Agata” risposi.
“Tuo padre che mestiere fa?”
“Ha lavorato in campagna.” E che mio padre avesse fatto il loro stesso mestiere li rendeva felici, ma sentivo che non approvavano che avessi lasciato il loro mestiere e la campagna. Sapevano che vivevo al Nord per cui mi chiesero:
“Ma tornerai qui, ai tuoi posti?”
Io alzavo le spalle, sebbene fossero domande che mi facevano piacere, e sorridevo senza dire niente. Sarebbe stato troppo lungo spiegare che eccome se volevo tornare, ma non era più possibile. Come potevo mai tornare se il mio posto era altrove? Al che loro facevano le smorfie e dicevano:
“Ma come? Non sei sicuro di tornare? Devi tornare.”
Quei vecchi avevano la capacità di risvegliare un sentimento che credevo ormai sopito. Erano quelle le persone che mi piacevano più di tutte, perché insegnavano a tenere vive le proprie radici. Mentre parlavano calmi e ieratici ebbi l’impressione come se si fossero materializzati tutti i miei antenati che chiedevano il mio ritorno. Quel giorno capii che dovevo tornare, fosse stato anche l’ultimo giorno della mia vita. Me lo chiedevano i miei antenati. Arrivarono gli sposi e mangiammo così, sulla tavolata, all’aperto, forse come si era sempre festeggiato da secoli in campagna. Com’era bello il mio sole, la mia aria, il mio cielo. Qui la vita aveva un senso.